Amedeo Novelli: la fotografia è gesto, persona, impegno
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Amedeo Novelli, fotografo e giornalista con una lunga esperienza nel reportage sociale e nella fotografia commerciale (moda e adv), senza dimenticare progetti legati anche allo sport.
Amedeo Novelli è inoltre Sony Imaging Ambassador, riconoscimento che sottolinea il suo impegno e la qualità del suo lavoro nel panorama fotografico internazionale.
Conosciuto per il suo approccio etico e sensibile all’immagine, Novelli ha documentato eventi internazionali come la Homeless World Cup, raccontando attraverso la fotografia non solo il gesto atletico, ma anche le storie, i volti e le condizioni sociali che lo circondano. È uno dei fondatori di Witness Journal, il primo magazine online italiano dedicato al reportage.

Quando è iniziato il tuo percorso nel mondo della fotografia e del giornalismo sportivo?
L’inizio di una carriera da fotografo e giornalista non è mai lineare, e lo è ancora meno il suo sviluppo. Quando sei giovane, la fotografia sembra un ambito molto tecnico, fatto soprattutto di attrezzature e regole, ma con il tempo ti accorgi che va di pari passo con la crescita della tua personalità e della tua identità. All’inizio non hai nemmeno la possibilità di scegliere i progetti: il lavoro è poco e prendi ciò che arriva. Lo sport è entrato nella mia esperienza un po’ per caso, come spesso accade, ma mi ha subito colpito per la potenza narrativa che può avere.

Ricordi il tuo primo approccio alla fotografia sportiva?
La prima volta che ho documentato un evento sportivo è stato a Monza, con la Formula 1, parecchi anni fa. Si usava ancora la pellicola. Ricordo che avevo fatto circa una ventina di foto e temevo fossero troppo poche. Invece, quel giorno ho scoperto che – purché fossero buone – ne bastavano anche solo quindici: in questo ambito lavorativo, la qualità è più importante della quantità.
C’è un progetto in particolare che consideri un punto di svolta?
La Homeless World Cup per me è stata un trampolino di lancio. È un evento che coinvolge ancora oggi decine di paesi e migliaia di partecipanti. Era un mezzo di riscatto, gestito da un’associazione che si occupava di recuperare persone senza dimora, coinvolgendole in un percorso sportivo di rinascita. Quell’anno la finale si giocava a Milano, ed è stata una vergogna: c’erano pochissimi spettatori a sostenere un evento così importante anche dal punto di vista sociale. Quando la fotografia, insieme allo sport, sposa una causa così significativa, deve produrre effetti positivi: è uno strumento che deve essere messo al servizio degli altri. Mi sono quindi impegnato a ritrarre i giocatori come veri professionisti, esattamente come avrei fatto con atleti di Serie A, per restituire al 100% la loro voglia di rimettersi in gioco.

Che ruolo ha, per te, la fotografia al di là del lato professionale?
La fotografia è un impegno, oltre che una professione. È un modo per restituire ciò che prendo, perché indaga la società. È un ambito lavorativo in cui si è in continuo contatto con il pubblico, un pubblico di cui anch’io faccio parte, come individuo inserito nella comunità. Quindi non la guardo solo da fotografo, ma anche da persona. È un mezzo di comunicazione importante perché è immediata, visiva. È uno strumento per gli altri oltre che per sé stessi, e quindi anche un gesto politico. Ogni fotografo ha la sua etica e i suoi valori.
E dal punto di vista tecnico, qual è la tua visione?
Dal punto di vista tecnico, per me la fotografia è composizione di luci. Ci sono anni di studio dietro. Ovviamente una buona attrezzatura fa la differenza, soprattutto nei progetti più complessi. Ad esempio, nello sport vengono spesso usate macchine fotografiche che arrivano a 260 scatti al secondo: è ovvio che con quell’attrezzatura almeno uno scatto perfetto lo porti a casa. Ma il fotografo è come un artigiano: ciò che fa davvero la differenza è l’idea dietro a una fotografia. Quella è la chiave. È ciò che rende uno scatto unico.

Come si racconta lo sport attraverso la fotografia?
Lo sport è gesto, ma è anche persona. È l’atleta stesso a rappresentare lo sport, ed è importante non banalizzare questo aspetto. Oggi, grazie (o a causa) dei social, tutto è fotografato e tutti si sentono fotografi. Per questo è ancora più importante avere la sensibilità di saper cogliere, attraverso un’immagine, i dettagli e il contesto che la rendono speciale.

Infine: cosa rappresenta per te, intimamente, la fotografia?
Per me è una forma di terapia. È ciò che mi fa stare bene, uno spazio che devo proteggere – soprattutto quando rischia di diventare solo un dovere. Fare il fotografo è un lavoro vero e proprio: richiede studio, impegno, sacrificio. Ma può regalare anche enormi soddisfazioni. E quando riesci a conservare quella scintilla iniziale, quel legame profondo con ciò che fai, la fotografia smette di essere solo un mestiere… e diventa parte di te.
