Nader al-Masri: correre per restare liberi
L’arena sportiva come spazio di resistenza
Lo sport è competizione, fatica e gloria. Ma, a volte, diventa anche un atto di protesta silenziosa, un gesto di libertà. Negli ultimi anni, sempre più atleti hanno usato la propria disciplina per lanciare messaggi che vanno oltre il risultato sportivo, trasformando il campo o la pista in un luogo di coscienza civile.
Tra questi c’è Nader al-Masri, corridore palestinese, simbolo di come lo sport possa sopravvivere anche dove tutto sembra fermo.
Un atleta nato tra le macerie
Nader al-Masri nasce a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza. Cresce in un territorio ferito, dove anche un allenamento può diventare una sfida. Ogni corsa è un atto di determinazione, ogni chilometro un modo per restare vivi.
Specialista del mezzofondo, al-Masri raggiunge il sogno di ogni atleta: rappresentare la propria terra alle Olimpiadi di Pechino 2008, correndo i 5000 metri. È un traguardo che vale più di una medaglia, perché dietro quella gara ci sono anni di allenamenti tra strade dissestate, carenze di strutture e confini invalicabili.

Quando correre diventa una prigione
Nel 2013 e nel 2014, Nader avrebbe dovuto partecipare alla Palestine Marathon di Betlemme, ma la Corte Suprema di Israele gli nega il permesso di uscire da Gaza.
Le motivazioni ufficiali? “Ragioni di sicurezza”. Nessuna spiegazione concreta, solo un altro muro invisibile.
«Mi sono preparato per due mesi alla maratona di Betlemme, sapendo di poter lottare per il primo posto. Ho corso su e giù per i 45 km di Gaza, e al momento decisivo mi dicono che non posso andare. Senza alcun motivo. Sono solo un atleta», raccontava al-Masri.
Fonte: The Guardian, 2014.
Parole semplici, ma potenti. Perché nella sua voce non c’è rabbia, ma la consapevolezza che anche lo sport può diventare una forma di resistenza.
Il silenzio di Gaza e la corsa che non si ferma
Oggi di Nader al-Masri si sa poco. Le ultime notizie risalgono a diversi anni fa. Beit Hanun, la sua città, è stata duramente colpita dai bombardamenti dell’esercito israeliano. Non sappiamo se Nader sia ancora vivo.
Ma il suo esempio resta potente: non quello di un atleta che semplicemente continua a correre tra le macerie, bensì di un uomo che crede nella resistenza.
Ogni suo passo è stato un modo per sfidare l’invasione e la distruzione, un atto di libertà per sé e per il suo popolo.
Per lui, correre non significava solo allenarsi: era un modo per dare voce a chi non può parlare, per dire al mondo che anche sotto le bombe c’è chi continua a lottare per la dignità e per lo sport.

Lo sport come testimonianza di libertà
Raccontare la storia di Nader al-Masri significa ricordare che lo sport non è solo competizione o risultato, ma anche testimonianza. Ogni corsa, ogni allenamento, ogni linea d’arrivo diventa un modo per affermare la propria esistenza in un mondo che spesso ignora chi vive tra guerra e ingiustizia.
Attraverso il suo esempio, Nader ci insegna che lo sport può essere una voce per chi non ne ha, un gesto di libertà che supera confini, barriere e silenzi.
Correre per non arrendersi
Nader al-Masri non è un campione da prima pagina. Non ha sponsor, non ha record mondiali, ma ha incarnato il significato più profondo dello sport: resistere.
