Sam Mellish – Fotografia sportiva tra comunità e Olimpiadi
Abbiamo avuto il piacere di intervistare un fotografo che ammiriamo da tempo: Sam Mellish, autore britannico capace di raccontare lo sport con uno sguardo umano e documentario.
Dai campi di calcio dilettantistici fino alle Olimpiadi, Mellish cattura emozioni, contesti e momenti che vanno oltre l’azione, trasformando ogni scatto in una narrazione visiva.
Partiamo dall’inizio
– Cosa ti ha spinto a fotografare lo sport? È stata una scelta consapevole o qualcosa che si è sviluppato nel tempo?
Nei miei primi vent’anni ero appassionato di viaggi, fotografia e snowboard. Ho lavorato in diversi resort sciistici tra Europa occidentale ed emisfero australe, dove le montagne erano lo scenario ideale per sperimentare con la macchina fotografica. All’inizio scattavo solo per divertimento, immortalando amici e colleghi. Provavo tecniche come tempi lenti, rear curtain sync, cross processing e pellicole ad alta sensibilità come la Ilford 3200 in piena luce. Usavo una EOS 500 da 35mm e una pinhole da 120mm, creando immagini lontane dallo standard. La mia prima digitale arrivò solo nel 2006.
Con il tempo, man mano che miglioravamo nello snowboard e nella fotografia, anche brand, sponsor e riviste iniziarono a interessarsi. Così vendetti i primi lavori e ottenni i miei primi incarichi. Era l’epoca pre-social, i tempi erano lenti: si scattava per una stagione, poi si sviluppavano negativi e diapositive, e mesi dopo le immagini arrivavano ai photo editor per la pubblicazione. Vedere i miei scatti stampati fu una sensazione incredibile.

Lo sport come racconto visivo
– Nel tuo progetto The Game sei riuscito a raccontare l’anima del calcio dilettantistico britannico con uno sguardo molto personale. Come è nato?
Devo molto alla comunità e ai tifosi del Dulwich Hamlet FC.
Furono due stagioni turbolente per la squadra, e mi trovai nel posto giusto al momento giusto. Ero già un tifoso e andavo spesso alle partite casalinghe. Il club è una vera comunità: inclusivo, accogliente, speciale. Nel marzo 2018, dopo 106 anni, la squadra venne sfrattata dallo stadio di Champion Hill, venduto a un costruttore. Questo smosse l’intera comunità: tifosi, residenti e appassionati di calcio. I rivali locali, il Tooting and Mitcham FC, offrirono il loro campo come casa temporanea. Nonostante tutto, quell’anno il Dulwich Hamlet fu promosso in National League South.
A metà della stagione successiva la squadra tornò a Champion Hill grazie all’impegno dei tifosi, chiudendo il cerchio. Raccontare questa storia locale fu un’esperienza speciale, alternativa ai miei viaggi di lavoro.

– Cosa cercavi a livello visivo nei piccoli stadi, tra le folle e i campi di periferia?
Mi attirava il lato comunitario del club, la sua capacità di accogliere chiunque, nonostante il dramma dello sfratto. Volevo immortalare la passione e la fedeltà dei tifosi. Ho scelto di lavorare solo in analogico: in uno stadio con migliaia di spettatori non passavo inosservato con la medio formato, spesso puntata lontano dal campo.

Dalle radici alle Olimpiadi
– Nei tuoi lavori olimpici emerge sempre rispetto per l’atleta e per i momenti intermedi, non solo per la competizione. Come cambia il tuo approccio in un contesto così strutturato?
Alle Olimpiadi bisogna adattarsi alle limitazioni di accesso e rispettare le regole. Prima di tutto occorre garantire lo scatto di sicurezza, e poi cercare un punto di vista creativo che mostri il lato umano dell’atleta. Sono fortunato a ricevere incarichi da enti come Team GB, Team England o Paddle UK: per me è fondamentale valorizzare atleti e squadre nel miglior modo possibile. Ho imparato a capirli lavorando insieme per anni. E nel caso degli olimpionici, dietro ogni atleta c’è un intero team di coach e staff: anche questo merita di essere raccontato.
– C’è un’immagine olimpica che porti particolarmente nel cuore?
Sì, il bronzo di Billy Morgan a Pyeongchang 2018. Lo conoscevo da dieci anni, lo avevo fotografato agli inizi, nel 2010. Durante la sua run finale fece un risultato incredibile e restò in terza posizione, ma davanti a lui si preparavano i colossi canadesi, americani e scandinavi. Fu un’attesa interminabile di venti minuti. Alla fine nessuno lo superò. Vinse il bronzo. Ricordo ancora i brividi e la gioia di coach, compagni e staff: un momento storico per gli sport invernali britannici.

Lo sport come cultura quotidiana e lo stile personale
– Nei tuoi progetti, da The Game ai ritratti olimpici, sembri voler mostrare sempre l’atleta come persona, nel suo contesto, nei momenti più ordinari. È qualcosa che cerchi consapevolmente? Dove tracci la linea tra fotografia sportiva e cultura visiva?
Cerco sempre di andare oltre la pura azione sportiva. Mi interessa raccontare la persona, non solo l’atleta, inserirla nel suo ambiente e nei momenti di quotidianità. Per me la fotografia sportiva è anche cultura visiva: la passione dei tifosi, i gesti spontanei, gli attimi fuori dal campo hanno lo stesso valore del momento agonistico.
– Le tue immagini hanno spesso un tono intimo, lontano dallo spettacolo. È una scelta consapevole? Quanto conta per te l’estetica documentaria?
La fotografia documentaria mi dà enorme soddisfazione, perché nello sport ci sono innumerevoli momenti che meritano di essere raccontati. Quando ho tempo e libertà di muovermi, mi piace esplorare questi aspetti con creatività. Se invece devo coprire gare serrate come una finale dei 100 metri alle Olimpiadi, dove in dieci secondi bisogna avere lo scatto giusto prima di passare subito a un altro evento, vado sul sicuro. Ma quando posso seguire un’intera giornata sportiva, mi concedo più spazio per immagini personali, quelle che vorrei vedere nel mio portfolio o sulla carta stampata.
Progetti futuri
– Stai lavorando a qualcosa di nuovo, legato allo sport o alla fotografia documentaria? C’è uno sport o una storia che ti piacerebbe esplorare?
Ho una famiglia giovane e non voglio perdermi questi primi anni. Non smetto di pensare ai progetti personali, ma per ora sono in pausa. Ci sono idee che voglio sviluppare, quindi direi: restate sintonizzati! Mi piacerebbe anche tornare a lavorare su incarichi editoriali per riviste: l’ultimo risale a 5-6 anni fa, da quando mi concentro soprattutto sugli eventi sportivi dal vivo. Ma li adoro.
Nelle prossime settimane sarò impegnato a fotografare sette partite della fase a gironi della Coppa del Mondo di Rugby femminile, che si svolge in Inghilterra, e a inizio settembre accompagnerò la delegazione di British Athletics per documentare i Mondiali di atletica e il ritiro in Giappone

Un consiglio ai lettori
– Che consiglio daresti a chi vuole avvicinarsi alla fotografia sportiva, soprattutto con un approccio narrativo e umano?
In un evento sportivo accade di tutto: l’azione in campo, ma anche emozioni e tensioni fuori dal campo. Bisogna osservare, analizzare, fidarsi dell’istinto e prendersi il tempo necessario. Non seguo troppo le mode: il segreto è partire da un soggetto che amate davvero. Per me fu lo snowboard. Date tutto, sperimentate, sbagliate, imparate. Solo così si va avanti.
L’autore
Sam Mellish è un fotografo britannico specializzato in fotografia sportiva e documentaria. Dai campi di calcio di periferia alle Olimpiadi, i suoi lavori esplorano lo sport come cultura quotidiana e come esperienza umana. È anche fondatore di Diesel Books, casa editrice indipendente dedicata alla fotografia.